Presenze / assenze

Mostra 2015

Presenze e assenze
di Rosa Cuccurullo

Presenze e assenze
Ci sono, al contempo scompaiono
Cosa resta di me se non una traccia
Meglio un’ombra
Un’ombra il mio passato
Un’ombra del mio vissuto
Ombre riflesse d’identità altre
Vere fasulle indefinite

Presenze e assenze
Oasi e deserto
Dentro e fuori
Facce di un unico volto

Provai ad essere
Mi accorsi di non potermi definire

Assenze, sul profilo della pittura
di Ada Patrizia Fiorillo

Se nel cammino di un artista l’eclettismo non è cifra da considerare quale accezione negativa, quanto il segnale di una curiosità protesa ad indagare, sperimentare, sondare pratiche, anche di primo acchito distanti, Rosa Cuccurullo appartiene senz’altro a tale categoria di artefici. Un orientamento che, però va detto, pone a rischio il compimento e, di conseguenza, il riconoscimento di una poetica, sopraffatta, nel suo caso, dalla discontinuità espressiva, ma anche dal rivolo di interessi che, oltre l’esercizio creativo, l’hanno vista e la vedono in campo come organizzatrice e curatrice di eventi, gallerista e sostenitrice di giovane leve. Non la meraviglierà questa mia osservazione, ne abbiamo parlato in più di un’occasione, non ultima quando mi ha mostrato i lavori che oggi compongono il percorso di questa mostra. Opere non a caso piuttosto lontane da quanto conoscevo, vale a dire sia dalle composizioni pittoriche di dettato ‘neo-informale’, sia dalle ceramiche affidate soprattutto alla funzione del decoro. Il riferimento è a quella produzione relativa all’arco di tempo degli ultimi due decenni che vi comprendono pure quelle piccole ‘sculture-giardino’ ancora mai uscite dal suo studio. Ma veniamo all’oggi, a queste superfici monocrome di taglio decisamente minimale che Rosa ha realizzato nel corso di quest’anno. Si tratta di un’esperienza che l’ha impegnata con assiduità, non tanto per estensione dal momento che il ciclo, costituito da ritratti e segni, è piuttosto contenuto, quanto per partecipazione emotiva al tema che, sotterraneamente, li attraversa, ovvero quello della presenza-assenza. A dare peraltro conferma di questo coinvolgimento, l’artista ha accompagnato tali lavori con un video anch’esso assai stringato per narrazione. Nodo centrale rimangono le tecniche miste le cui motivazioni appaiono strettamente connesse alla scelta del linguaggio formale. Volendo restituire il ritratto di persone a lei care, di amici o di figure dell’arte che l’hanno affascinata, Rosa ha giocato con un percorso contrario alla presenza. Partita da un exmedia come la fotografia, ha puntato sull’assenza, restituendo solo il contorno, ovvero la sagoma dell’immagine di riferimento, incisa nello spessore sottile del multistrato di cartone o, al contrario, prodotta per raffinato aggetto. Il tutto raggiunto tramite la complicità di un colore uniforme, in prevalenza bianco, affiancato da assunzioni di rosso, di verde, di grigio fino al nero, polo estremo tra la luce ed il buio. Medesimo il procedimento anche per i simboli, quali la croce latina o quella greca declinata a mo’ di svastica che l’artista vi ha voluto includere, filtrando, per possibile suggestione, impaginati di simbologie propri ad un dizionario assunto da noti interpreti, penso in primis a Mimmo Paladino, ma anche, su versante non immediato, ad Antoni Tàpies. Rimandi a parte, fin qui Rosa ha fatto ricorso ad una delle tante prassi espressive che le esperienze dell’arte, dal secolo scorso, ci hanno abituato a concepire. V’è però da sottolineare un aspetto che mi sembra interessante del processo che Rosa ha messo in atto nel trasferire questi ritratti, titolati peraltro con le semplici iniziali dei nomi. In sostanza dichiarando un non specifico interesse per la singola identità, l’artista ha spostato l’attenzione sulla modalità percettiva mediante la quale avvicinare la fissazione dei caratteri.
Se si eccettua R.C., quasi tutte le effigi coinvolte, M.S., L.B., P.L., P.F., G.C., R.M., A.V., sono viste infatti di profilo. Rientrano dunque nel cono di una tipologia che molto sarebbe piaciuta al filosofo e teologo zurighese Johann Caspar Lavater, tra i più noti diffusori della fisiognomica nell’età dell’Illuminismo.
Per l’autore dei Physiognomische Fragmente zur Beförderung der Menschenkenntnis und Menschenliebe pubblicati tra il 1775 ed il ’78, (Frammenti fisiognomici per la promozione della conoscenza e dell’amore dell’uomo), l’idea del profilo commissionato ai tantissimi artisti che collaborarono al suo progetto di studio, era un modo per scoprire, mediante i tratti fissi, una sorta di verità, la più verosimilmente vicina all’estetica della natura e quindi di Dio. Salvo a considerare che in quella forma vuota destinata, come nota Andreas Beyer, ad una sorta di «anti-iconicità» potevano annidarsi una quantità di speculazioni narrative. In quei profili si racchiudeva insomma, sarà questa una delle maggiori critiche rivoltegli, ben più che l’auspicata uniformità ideale. Oltre l’univocità della sagoma l’immagine lasciava spazio a quel gioco di corrispondenze, di proiezione e di memoria che il ritratto richiama. Naturalmente non voglio sostenere che Rosa Cuccurullo abbia agito seguendo il filo di tali trame di pensiero. Gli esiti però di queste pagine hanno avviato un flusso di sollecitazioni, rafforzate dal ricordo della bella storia raccontata da Plinio nel suo Naturalis Historia riguardo la nascita della pittura e per essa del ritratto, genere tra i più antichi nella storia delle arti. Narra infatti lo storico che Butade, vasaio di Sicione, colpito dal dolore della figlia per la partenza dell’innamorato, raccolse il profilo del giovane proiettato dall’ombra sul muro consegnandolo ad una sagoma riempita di argilla. Si parla dunque di una presenza costruita sull’assenza, della capacità di un’immagine di farsi testimonianza di ciò che il tempo conserva nella nostra memoria, certamente poli di interesse verso i quali si è mossa Rosa Cuccurullo. Varcando quella soglia limite oltre la quale la realtà scivola nella dimensione interiore, l’artista si è imbattuta in quel repertorio che la coscienza chiama immagini, evocandole come fisionomie mediante un gesto che non richiama certezze, ma relazioni, pensieri, indizi. Intagliando questi profili l’artista ha dunque scavato innanzitutto in se stessa, nelle ombre che annidano una presenza, affidando al gesto della pittura la ricerca della propria identità.

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